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Covid-19. Dopo il lockdown la rinascita

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Il Civitan International è un’associazione internazionale di Service Club a favore della comunità, attiva da oltre un secolo e diffusa in tutto il mondo. L’organizzazione si occupa di persone affette da disabilità intellettive e dello sviluppo, con un focus sulla ricerca e mira a costruire buona cittadinanza. Il Civitan Club Roma sostiene tali obiettivi e li persegue sul territorio anche in Italia. A seguito della situazione sanitaria emergenziale derivata dalla pandemia legata al diffondersi del Covid-19, per superare l’inevitabile e imprevedibile situazione di stallo sociale, abbiamo pensato a una raccolta di riflessioni da parte dei soci e delle socie del Club, che coinvolgesse anche alcuni prestigiosi esperti in campi e discipline diversi, per mettere insieme vari punti di vista: artistico, comunicativo, giuridico, economico, ambientale ecc. Considerazioni personali, basate sulle specifiche esperienze e competenze, legate fra loro da un unico fil rouge: il Covid. Una sorta di “diario di bordo” avviato durante il primo lockdown, a sottolineare l’importanza dell’impegno individuale teso a favorire comportamenti corretti, atteggiamento che certamente ha contribuito e contribuirà a fare la differenza nella convivenza e nella lotta al virus. Condotte virtuose, in linea con la nostra mission civica, rilanciate quale forte collante e strumento di rigenerazione umana e sociale, nonché risorsa imprescindibile per la realizzazione di un futuro piú sicuro e certamente migliore per le nuove generazioni.

Di seguito la mia riflessione racchiusa all’interno del progetto editoriale di Civitan Club Roma
5.2. RETI CIVICHE, ISTITUZIONALI E NUOVE SOLITUDINI

Il Covid-19 rappresenta un problema di salute pubblica di interesse mondiale. Velocità e facilità della sua trasmissione ci hanno costretto ad adottare comportamenti mirati a limitare il contagio. Ma oltre ai danni diretti dell’emergenza, questo 2020 rischia di lasciare in eredità un danno forse anche maggiore: l’acuirsi delle differenze tra le persone; tra chi ha gli strumenti ed è attrezzato a gestire la pandemia, addirittura giovandosi di nuovi spazi di vita e nuovi strumenti di lavoro, e chi, per ragioni diverse, si trova ancora più solo, privo di strumenti, impotente. Non solo perché non tutti, di fronte a una simile emergenza, riescono autonomamente ad avere accesso alle informazioni, ai servizi o alle misure di sanità pubblica per contrastare il coronavirus. Ma perché mesi di isolamento sociale – non sempre ben gestiti dalle amministrazioni, in parte per la sorpresa generata da un problema nuovo, in parte per limiti strutturali sedimentati – non si recuperano facilmente. In questo contesto le reti di persone, l’attivismo civico, la buona amministrazione, hanno fatto e continuano a fare la differenza. Solo per citare alcuni buoni esempi che, dalla Regione Lazio, abbiamo avuto modo di apprezzare, voglio ricordare le esperienze di accoglienza delle persone senza fissa dimora, come quelle di Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Binario 95, che a Roma hanno svolto
Covid-19.

Dopo il lockdown la rinascita un compito fondamentale nella limitazione della diffusione del contagio tra le persone che purtroppo spesso appaiono invisibili. È stato necessario, infatti, attivarci tempestivamente per consentire l’attività dei volontari organizzati in queste realtà anche in tempi di lockdown e nel rispetto delle regole di sicurezza. Altre buone pratiche che mi fa piacere citare sono rappresentate dall’attività svolta per i ragazzi con disabilità da realtà come Impariamo ad Imparare, in collaborazione con il Comune di Velletri, o Volo libero a Montelibretti: è stato tempestivo e prezioso l’attivarsi di ogni strumento possibile per non far mancare il consueto supporto alle famiglie e per limitare il rischio di arretramento e isolamento dei bambini e ragazzi con disabilità. Esperienze nate dall’unione delle forze di familiari di persone con disabilità, che meglio di chiunque possono supportare i servizi pubblici, indicando quali siano i bisogni veri cui dare risposta. Storie locali, queste ultime, che introducono il tema globale delle persone con disabilità, che nel mondo sono circa un miliardo, al cospetto dell’emergenza Covid: queste sono e sono state esposte a un rischio di contagio maggiore e alla possibilità di sviluppare una patologia più severa. Il venir meno del supporto di cui dispongono quotidianamente rischia di peggiorare le condizioni di salute e amplificare il loro isolamento sociale. Non considerando che si trovano a lottare con impedimenti oggettivi come, ad esempio, l’impossibilità anche solo di potersi lavare le mani con frequenza a causa delle barriere fisiche o delle difficoltà cognitive che talvolta impediscono di comprendere e adottare una “condotta anti-Covid”.

Se per tutti il lockdown è stato un periodo di isolamento e di difficile gestione dei tempi, per chi ha in casa una disabilità le difficoltà sono state ancora più evidenti. La quarantena dettata dal coronavirus ha impattato significativamente sulle persone disabili e sulle loro famiglie. È molto complesso per un genitore seguire da solo, senza il sostegno dei servizi sociali, un bimbo con disabilità motorie o cognitive. Chi ha in casa una persona con disabilità o fragilità vive una vita molto più difficile. Nei giorni del lockdown questa complessità è stata accentuata dal venir meno di una rete sociale di riferimento. Pensiamo, ad esempio, alla improvvisa sospensione delle lezioni in presenza, intese anche come possibilità di uscire di casa e di socializzare per i bambini e i ragazzi con disabilità; o addirittura alla sospensione della didattica in generale, in quanto non tutti da casa sono in grado di fruire degli strumenti digitali che rendono possibile l’insegnamento a distanza. Pensiamo al venir meno, anche per lunghi periodi, della funzione svolta dagli insegnanti di sostegno e dagli educatori che si fanno carico, in condizioni di normalità, dell’integrazione scolastica. Nel concreto, da consigliera regionale del Lazio, fin dai primi giorni di lockdown, con il supporto importante delle associazioni delle persone disabili e delle loro famiglie e delle realtà rappresentative dei professionisti del settore educativo e pedagogico, ho cercato di rendermi utile e di veicolare le loro richieste, per consentire ad esempio che gli educatori potessero continuare a svolgere la loro attività, secondo quanto avrebbero stabilito i Comuni e gli istituti scolastici, a distanza, a casa degli assistiti o nelle realtà residenziali (come ad esempio nel caso delle case famiglia); la sfida continua anche nell’anno scolastico 2020-2021, perché seppure fossimo del tutto fuori dal rischio sanitario, gli strascichi dell’anno appena trascorso non si esauriranno in breve tempo. Le giornate dei ragazzi con disabilità, prima della chiusura dei servizi, erano strutturate con routine ben definite e rassicuranti (scuola, centri di riabilitazione, sport ecc.), che improvvisamente sono venute a mancare. Queste persone sono state dunque private degli accessi agli ambiti di socializzazione. Al contempo i genitori, che prima potevano contare su alcuni momenti di quiete e riposo, si sono trovati con un gravoso carico fisico, emotivo e a volte anche economico, vista la necessità di congedarsi dal proprio lavoro, per gestire tutto il giorno e tutti i giorni i propri figli a casa, cercando di rendere migliori, il più possibile, le loro giornate. Difficoltà oggettive che rischiano sempre di ripercuotersi sui soggetti più fragili.

Non va dimenticato che in alcuni casi più gravi, come ad esempio per i ragazzi affetti da autismo, la gestione si è fatta ancor più complessa. I genitori non possono sostituirsi in tutto e per tutto agli educatori, perché questi ragazzi necessitano di personale esperto, in grado di prevenire stati d’ansia che possono rivelarsi deleteri. La quarantena ha esasperato situazioni di precarietà preesistenti nella gestione dell’assistenza, esponendo questi ragazzi a un elevato senso di instabilità e confusione. Privare un soggetto autistico della terapia comportamentale, spesso personalizzata, equivale a privarlo dell’unico strumento che genera un imprescindibile effetto positivo sulla salute, rischiando di determinare delle involuzioni nei comportamenti dovute, appunto, all’interruzione forzata e inaspettata delle terapie. Il lockdown è stato deciso in fretta e furia e pertanto è stato necessario, fin da subito, operare nella direzione di limitare i danni immediati, anche rispetto a esigenze semplici: ad esempio, con una mobilitazione tempestiva delle associazioni dei genitori dei bambini e ragazzi con autismo, si è presto rimediato all’eccessivo rigore stabilito per il regime delle uscite dalla propria abitazione, consentendo pertanto gli spostamenti necessari con l’accompagnamento di un genitore o un operatore.

È arduo nel quotidiano per queste persone farsi carico di una vita così complessa. I mesi del lockdown per alcuni ragazzi sono stati anche una cosa divertente, passata fra serie Netflix e lezioni a distanza, ma
per altri è stata una vera e propria tragedia e dobbiamo avere chiaro che non abbiamo vissuto e non stiamo vivendo tutti la stessa esperienza. Le disabilità fisiche e psichiche, nella loro totalità, non hanno bisogno quindi solo di risposte sanitarie ma anche, e soprattutto, di risposte sociali. La solitudine è cosa che la società non si può permettere. Oggi, di fronte a un’emergenza mai sperimentata prima, quello che più serve è un lavoro di monitoraggio e confronto con gli enti locali e le reti di attivismo civico, che non prolunghi di troppo la solitudine delle persone più vulnerabili. Imprese, associazioni o singoli cittadini, che con cooperazione e solidarietà mettono in campo progetti e azioni di supporto ai bisogni di molte persone, devono poter trovare istituzioni attente e attive. La partecipazione diffusa può migliorare la quotidianità di ognuno di noi, che ci troviamo o meno ad affrontare un’emergenza. Una sorta di responsabilità sociale che crea abilità vincenti per la comunità e per il bene comune.

Per fare un esempio: rispetto ai primi anni 2000 sono raddoppiate le risorse destinate alla responsabilità sociale d’impresa. Si tratta di un fenomeno importante, presupposto per un futuro sviluppo di interventi pratici e programmi operativi utili ai lavoratori, alle imprese e alla cittadinanza, riconosciuto anche dalla Regione Lazio rispetto agli ambiti d’azione che riguardano in particolare il contrasto alla povertà e allo sfruttamento del lavoro minorile, la valorizzazione del capitale umano delle aziende, la riduzione della produzione dei rifiuti e del consumo energetico, il rafforzamento dell’inclusione lavorativa e sociale delle persone con disabilità e l’abbattimento delle barriere architettoniche.

Concludo col ricordare che ho depositato in Consiglio regionale una proposta di legge quadro sulla disabilità: una legge che fa un passo avanti rispetto alla legge nazionale 104/92 e si fonda sulla presa in carico delle persone con disabilità a 360 gradi, quindi anche sul fronte della scuola e dello sport. Una legge che considera più la persona che la disabilità, con penalità per i Comuni inadempienti e premialità per chi è virtuoso. Una legge che riconosce il ruolo delle associazioni, specie di quelle che nascono tra familiari per condividere le esperienze e superare la solitudine. È un riconoscimento per chi si dà da fare. Perché nel settore della disabilità molte delle eccellenze nascono da chi ha avuto un problema in casa.

Per leggere il resto dell’editoriale clicca qui

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